lunedì 14 luglio 2014

Michael Cunningham, La regina delle nevi

Michael Cunningham è uno dei più famosi e capaci scrittori della sua generazione, autore americano premiato del Pulitzer per Le ore, splendido romanzo sulla inscindibile e spesso dolorosa relazione tra letteratura e vita, l’unica relazione capace di dare un senso alle vite disperate delle tre donne da lui raccontate: Virginia Woolf, ritratta a un passo da suicidio, Clarissa Vaughan, un editor newyorkese e Laura Brown, una casalinga californiana. Se volete fare un regalo a voi stessi, leggetelo, nella sua brevità è a mio parere un romanzo perfetto.

Michael Cunningham, La regina delle nevi, Bompiani, pp. 284, €18,00
Le ore è il motivo per il quale ho acquistato e letto l’ultimo romanzo di Cunningham, ahimè con una certa difficoltà.
Il romanzo inizia con una visione. È il novembre del 2004 e Barrett Meeks, reduce dall’ennesima storia d’amore finita male, sta attraversando Central Park quando in mezzo ai suoi pensieri circolari alza la testa verso il cielo e vede una luce pallida e rarefatta che sembra guardare proprio lui, in un modo quasi divino, turbandolo. Barrett non crede in Dio, o nelle visioni, ma non può fare a meno di pensare che ciò che gli sta succedendo sia un qualcosa di unico e che avrà delle ripercussioni nella sua vita. Da quel momento in poi cercherà continuamente connessioni tra la “visione” e gli eventi del quotidiano. L’altro personaggio che incontriamo nel capitolo successivo è Tyler, il fratello maggiore di Barrett, un musicista che non ha mai sfondato, e che sta cercando di scrivere una canzone da dedicare a Beth, la fidanzata gravemente malata con cui convive (insiema a Barrett) in un decrepito appartamento a Bushwick, sobborgo di Brooklyn. Questa canzone, a cui dedica tutto se stesso, deve essere una canzone d’amore ma non deve esaurirsi in questo.


Anche in questo romanzo troviamo quindi tre personaggi principali: Barrett, Tyler e Beth. Anche in questo romanzo Cunningham coglie tre vite in un momento decidivo, essenziale. L’autore segue i fratelli Meeks nel loro percorso personale verso la realizzazione di loro stessi, o verso una qualche forma di trascendenza, che porterà Barrett a gettarsi inaspettatamente verso la religione e Tyler a far uso sempre più costante e massiccio di droghe, nella folle idea che solo le droghe possano sviluppare il suo talento creativo. Beth, alle prese con la sua malattia, cerca di affrontarla con tutto il coraggio che riesce a mettere insieme, sfiorando il confine tra vita e morte, angoscia e tranquillità, sogno e realtà.


Cunningham dà il suo meglio secondo me nelle descrizioni che poco hanno a che fare con lo sviluppo della trama, ossia in tutti quei passaggi intermedi in cui racconta il quartiere o una cena tra amici, o le sottili dinamiche tra una coppia e un fratello così come emergono dai gesti o da un dialogo. Ma questo non fa un romanzo. È un grande scrittore e la sua prosa è elegante, permette al lettore l’accesso diretto all’interiorità dei suoi personaggi però sembra mancare qualcosa, anzi sembra quasi che la prosa soffochi la storia. Inizi a leggere e pensi che la confusione sia dovuta ad una traduzione troppo frettolosa, vai avanti nella lettura e aspetti che qualcosa prenda corpo, ma la trama è evanescente come la luce vista da Barrett a Central Park. Mentre i suoi personaggi cercano di barcamenarsi tra aspirazioni e realtà capisci che malgrado la loro ricerca non troveranno uno scopo né un senso di appartenenza, scivolando via senza lasciare traccia, incapaci di affrontare la vita: nessun conflitto, nessuna risoluzione. Forse questo era lo scopo dell’autore ma è anche ciò che rende il libro altrettanto evanescente.

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