lunedì 28 aprile 2014

Nikola P.Savic, Vita migliore

Lo sguardo del libraio che me lo ha venduto, e che ultimamente mi ha visto passargli alla cassa solo titoli Iperborea, Quodlibet e Mattioli1885 (che sono contentissima di continuare a comprare ed altrettanto felice che lui li tenga) non mi ha dissuaso. Sono curiosa. L’autore, Nikola P.Savic con il romanzo Vita migliore, Bompiani editore per chi non sapesse, è il vincitore di Masterpiece, un talent show sulla scrittura andato in onda su RaiTre che ho seguito in qualche puntata. Oddio un talent?! (già sento le voci di quelli che ma io quelle cose non le leggo, ma con tutti i capolavori che ci sono…). Io non ho pregiudizi, io leggo di tutto e se ho avuto così tanti clienti nella mia libreria è proprio perché rifiutavo di etichettare i romanzi in buoni e cattivi e mal sopporto anche la divisione di “genere”. Non avendo pregiudizi in questo senso resto curiosa.


Verissimo: spesso la curiosità mi fa prendere delle cantonate. Verissimo: spesso compro libri che vedo ben recensiti per poi stancarmi alla cinquantesima pagina. Verissimo: ultimamente le scelte editoriali della Bompiani come narrativa italiana non mi hanno entusiasmato. Però resto curiosa. Quindi? Sfoglio e leggo l’incipit, convincente. L’auto in copertina mi fa pensare al viaggio (punto positivo), le pagine non sono troppe, in caso non mi piaccia non ci avrò perso troppo tempo, il prezzo non è alto, il libraio mi toglie pure il caffè: l’ho comprato. E l’ho letto.

Nikola P. Savic (forse il libraio pensava fosse l’autobiografia di un qualche calciatore serbo?), scrive bene e questo romanzo meritava di essere pubblicato, e forse lo sarebbe anche stato, per altre vie. Il fatto è che io conosco molti troppi scrittori in cerca di editore che meriterebbero perlomeno di essere letti da qualcuno in casa editrice senza per questo dover pagare. Sappiamo in che stato versa l’editoria, sappiamo che i lettori sono sempre meno, che si legge in modo diverso, che per i librai è già difficile vendere i premi nobel figuriamoci i giovani scrittori esordienti e così via, non voglio affrontare qui questo argomento.


Veniamo al libro: un romanzo ad episodi, romanzo ma anche raccolta di racconti, ognuno con un suo argomento principale. Deki, dodicenne serbo, ne è protagonista e voce narrante. Lo vediamo crescere in famiglia e nel suo quartiere di Belgrado, passare i pomeriggi insieme ai suoi amici su cubi di cemento nei cortili tra un palazzo e l’altro, scoprire la sessualità e l’amore, diventare adulto, partire e poi tornare. 
Savic regala al suo protagonista uno sguardo tagliente e cinico, e ci racconta per suo tramite un’Europa vicina eppure lontana, una generazione disorientata, cresciuta sulle macerie del totalitarismo, alla ricerca della propria identità. Lo fa in modo sincero, diretto e politicamente scorretto. 

La sua forza e per me anche il suo limite, è un linguaggio elementare, al limite dell’essenziale, che alle volte crea disagio, fatica ad andare in profondità, come fosse un racconto orale. 
Forse frantumazione ed incertezza richiedono una lingua scarna, spigolosa, randagia. Questo linguaggio, che crea distanza, riproduce la stessa distanza di Deki da persone e cose e l’impossibilità di una appartenenza. Solo lo sguardo lontano, solo il pensiero, può essere dolce. 


Resta una curiosità, una domanda nell’etere, chissà se qualcuno risponderà. Dal programma si evinceva che il vincitore del programma avrebbe visto il suo manoscritto stampato con una tiratura record, tipo 100mila copie. Essendo che il copyright è della Rai (lo vedo sul colophon del libro), all’autore non andrà nulla dell’incasso?


Siamo sempre sul cubo e vediamo che passano di nuovo le pischelle. Ormai sono uno dei grandi. Non vedo Ìvana. Allora salto giù e vado da Snezana, la sorella di Buglia.
Snezana ha i capelli castano chiaro e lunghi fino al culo ed è più grande di me solo di sei mesi, ma va in terza perché io ho cominciato con sette anni piani e lei invece con sei. Non vedo nessuna somiglianza con Buglia e la sua faccia serenamente schifata.
- Ohi! Dov’è Ìvana? -
- Non ti riguarda… -
- Ah…? -
- Non ti riguarda! -
- Oh, ma che cazz… Dove-è-Ìvana? -
- Non te lo dico. -
Una sta per ridere ma io urlo:
- Ohi, se non me lo dici… -
- Cosa? - fa la smorfiosa.
Io di nuovo mi sento impotente e stupido, e sento che mi viene il nodo in gola e che gli occhi mi si gonfiano.
- Dimmi dov’è Ìvana… -. Questa volta lo chiedo piano, in modo quasi gentile.
- Andata a casa… -
Faccio ciao da sopra la testa e mi allontano. Vado dritto alla sua entrata e prendo le scale. L’ascensore sa di piscio e non c’è la luce. Esco e apro la porta di casa di Ìvana.
Chiuso…
Chiuso a chiave.
Busso.
Niente.
Poi rumori, poi bisbigli.
Poi la sua voce fermissima che dice:
- Chi è? -
- Io. -
Pausa. Lunghissima cazzo di pausa.
- Io chi? -
- Io, io, cazzo. Sono io, come io chi? -
- Fatti un giro! Adesso non posso. -
- Ehi, ma che dici… Sono Deki… Ehi? -
- Senti… Fatti un giro che adesso non posso. Ciao! -
- Oh… Ma che hai? -
Allora sento un’altra voce che dice:
- Ma chi cazzo è? Hai detto che i tuoi non ci sono… -
- Niente - dice lei.
Io mi ricordo che lei si veste male. Mi ricordo che adesso ascolta musica dark e punk e mi ricordo che Bojana dal secondo piano mi ha detto che l’ha anche vista fumare. E mi ricordo che non mi abbraccia più.
- Ma chi è con te? -
Si apre la porta e Ìvana mi guarda con gli occhi spalancati e in cagnesco.
- Vai a farti un giro! - scandisce benissimo le parole, sillaba per sillaba.
Da dietro appare uno grande con la camicia a quadri tipo montanaro e i capelli biondi e pieni di gel e con un sorriso beffardo.
Ìvana mi guarda e spalanca gli occhi e mi dice di nuovo, piano:
- Vai… - Io guardo lui da sopra la sua spalla e quello mi fa la facciona e l’occhiolino e il gesto che se la scopa, e io allora scatto e dico:
- Io adesso ti rompo il culo! - e faccio un passo avanti, ma Ìvana mi prende i capelli e mi tira la testa e mi dà uno schiaffo e io non ci posso credere e mi dice:
- Tu adesso ti levi dalle palle! E non farti più vedere! -
Sbatte la porta e io sento da dentro quello che ride e dice:
- Poverino… Povero bambino! -
- Ahahah… - ride lei.
E io sono di fronte alla porta bianca e penso di come non c’è la luce nell’ascensore e di come tutto puzza di piscio e penso di come è stronzo mio padre che fa stare male mia madre, come sto male io.
Perché sto male?
Perché m’immagino quello che la tocca sulle tettine e le mette la lingua in bocca come fanno i grandi e magari se la scopa anche, e io sono solo un bambino che viene preso a schiaffi perché non si leva dalle palle.
Chiamo l’ascensore.
Aspetto che le porte si aprono nella piscia.
Esco fuori e fuori c’è la luce e le grida dei bambini e mi avvicino e mi arrampico sul cubo.
Mihailo mi guarda e mi dice
- Oh Deki, tutto a posto? -
Io non so che dire. Non mi viene da piangere, ma vorrei piangere. Non mi viene da fare niente. Mi viene solo in mente la merdosissima porta bianca che si estende all’infinito.
Vedo solo bianco e vuoto. Bianco senza luce.
Mi vedo bambino e mi ricordo di come non vedevo l’ora che fosse il mio turno per farmi rompere l’uovo in testa, per poter giocare con i grandi. Il grande rompeva prima un uovo sodo sulla testa del complice, e poi a noi piccoli - me e Scabbia - toccarono quelli crudi. Ricordo di come il bambino che ha rotto l’uovo con la testa prima di Scabbia e me sapeva tutto, e stava al gioco, e già rideva di noi che volevamo giocare con i grandi.
L’uovo per la sua di testa era cotto, mentre i nostri erano crudi. Io e Scabbia, bambini che volevano giocare con i grandi, cinazzi che volevano farsi accettare dai grandi, ignari che eravamo solo piccoli marmocchi buoni per farsi due risate.
E penso a Snezana e ai suoi capelli lunghi e a quelli suoi occhi marroni, che non erano di sfida, e che io non avevo capito niente. E che lei sapeva tutto e capiva e, in fondo, a lei non andava che mi sbattessero l’uovo crudo in testa. Chissà quante uova così si è presa lei.
Quella porta vuota e bianca e merdosa è l’uovo gigante che m’impasticciava i capelli.
Solo che questa volta non c’è nessuno shampoo che mi possa lavare.

l'autore, Nikola P.Savic: di origine serba, si è trasferito in Italia quando aveva 12 anni. Campione di Thai Boxe, laureato in Scienze della Comunicazione all’Università degli Studi di Bologna, vive e lavora in provincia di Venezia con la moglie bulgara e la figlia, provetta ballerina. Tra i suoi scrittori preferiti, Charles Bukowski e Fëdor Dostoevskij. Il suo peggior difetto? La pigrizia. Tra dieci anni s’immagina ancora più ozioso e, curiosamente, più stupido di adesso.

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