Non lasciatevi ingannare dal titolo e dai pois rossi su
sfondo bianco in copertina, non si tratta di un romanzetto chick lit e la
cioccolata in questione è piuttosto amara.
Pamela Moore, Cioccolata a colazione, Mondadori, pp. 265, €13,00 |
In un pomeriggio nuvoloso di giugno una donna siede alla
scrivania nel suo appartamento di Brooklyn Heights, New York. Suo marito, un
giovane avvocato, è uscito. Il figlio è nella stanza accanto, ha nove mesi e
sta dormendo. Il cielo fuori dalla finestra è sempre più scuro, improvvisamente
scoppia una tempesta di tuoni. La donna sta scrivendo qualcosa sul suo diario.
Poi s’interrompe, si alza, apre un ripostiglio ed estrae un fucile calibro 22.
Anzitempo e scioccante quando venne pubblicato nel 1956,
Cioccolata a colazione è la storia del candido e improvviso risveglio delle
giovane Courtney Farrell, combattuta tra il desiderio di amare ed essere amata
e la volontà di sperimentare i propri limiti ed i propri desideri, consumata
dal bisogno di trovare il suo posto nel mondo, insofferente alle regole
prestabilite, soprattutto curiosa del mondo che la circonda. Cinica, indagatrice, sessualmente precoce, Courtney è
un’adolescente cresciuta molto in fretta in una famiglia in cui i rapporti
interpersonali sono inesistenti e legati alla contingenza. Non riesce a legare con i suoi coetanei che
considera troppo superficiali e prevedibili, e si propone di voler sperimentare
tutto nella sua giovane vita, e possibilmente in rapida successione: si
innamora della sua insegnante del college, si impegna in una storia passionale
con un uomo molto più grande di lei, impara a degustare martini nei bar di
Hollywood, frequenta ogni tipo di compagnia.
È inquieta Courtney, sente la pressione di un modello
sociale che ancora vuole le donne brave mamme e brave casalinghe, abili a far
funzionare gli elettrodomestici ed a mettere il rossetto senza sbavature. Il
modello americano degli anni Cinquanta, cui oggi molte ragazze si ispirano nel
modo di vestirsi e pettinarsi e che sembra andare tanto di moda, esiliava la
donna alle faccende domestiche o poco più. La sicurezza personale derivava dall’essere
state dal parrucchiere, la felicità coincideva con grandi sacchetti della spesa
pieni di ogni tipo di prodotto e bambini ben vestiti seduti a tavola. Una
società asfittica di individui soli che provano a impersonare una parte e sono
destinati a fallire. Courtney non sa ancora cosa vuole, sente di poter essere qualcosa
in più di un visino sorridente e ben truccato e si riconosce capace di uno
sguardo intelligente e di conversazioni brillanti ma non vuole rinunciare ad
essere compresa e amata, mentre la realtà che la circonda le mostra che le
donne emancipate, le donne che lavorano, sono sole. E allora come si diventa
donne? Courtney con tutta l’energia degli adolescenti prova in ogni modo ad
esserlo, sbagliando e ritentando, allontanandosi e riavvicinandosi alla se
stessa più autentica.
Pamela Moore cerca di farlo attraverso la scrittura, attraverso il suo essere artista, spesso costringendosi ad un rigore di cui non si credeva capace, spesso seguendo il suo istinto e fuggendo dal clamore che non sente appartenerle. Soffre dell’etichetta di “romanzo dello scandalo” che la stampa le ha imposto, soffre per le domande sulla sua vita sentimentale durante le interviste, si sente imprigionata nell’immagine che il romanzo, evidentemente autobiografico, ha dato di sé, vuole essere presa sul serio. Ma il riscatto attraverso la cultura, così come per la Esther protagonista de La campana di vetro di Sylvia Plath (autrice che viene spessissimo accostata, a ragione, a Pamela Moore, con la quale condivide il triste destino) non arriverà mai.
Il libro è stato tradotto in Italiano immediatamente dopo la sua uscita, per Mondadori, ed ha avuto grande successo in Europa, soprattutto in Francia. L’edizione che io ho letto, e dalla quale ho copiato una parte della postfazione, è l’ultima in ordine di pubblicazione: Mondadori collana Meridiani paperback.
In libreria lo metto vicino a:
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